Negli ultimi anni abbiamo imparato che le organizzazioni non si reggono soltanto su processi, strutture o tecnologie. Ciò che davvero fa la differenza, soprattutto nei momenti di incertezza, è la qualità delle relazioni tra le persone.
E dentro queste relazioni esiste un elemento spesso ignorato, ma decisivo: la sicurezza psicologica.
Me ne sono accorta ancora una volta durante una recente aula di formazione. Quando ho chiesto ai/alle partecipanti cosa permettesse loro di lavorare bene insieme, le risposte non parlavano di strumenti sofisticati o budget aggiuntivi. Parlavano di fiducia, di ascolto, di possibilità di dire la verità senza temere conseguenze.
In altre parole: di sentirsi al sicuro.
Non è solo una sensazione. Una ricerca recente di Amy Edmondson e Michaela Kerrissey, pubblicata su The New England Journal of Medicine (LINK) conferma che la sicurezza psicologica è una risorsa protettiva tanto potente quanto, e talvolta più, delle risorse materiali.
Significa che non è un “nice to have”, ma una condizione necessaria per lavorare bene, apprendere, innovare e affrontare la complessità.
Ma cosa vuol dire davvero creare contesti ad alta sicurezza psicologica?
A volte si pensa che significhi essere sempre gentili, evitare i conflitti o creare un ambiente “morbido”. In realtà è qualcosa di molto più concreto e, in un certo senso, più impegnativo.
Creare sicurezza psicologica significa permettere alle persone di:
- Dire “non lo so” senza paura di perdere credibilità, perché l’umiltà è parte del lavoro, non un difetto.
- Portare un dubbio prima che diventi un problema, sapendo che verrà accolto e non minimizzato.
- Considerare la vulnerabilità una competenza professionale, un modo per costruire connessioni autentiche e prendere decisioni più lucide.
- Vivere routine di ascolto reali e continue, non attività spot programmate solo per riempire un calendario HR.
Sono pratiche semplici da descrivere, ma difficili da mettere in atto se la cultura organizzativa non le sostiene. Richiedono intenzionalità, coerenza e, soprattutto, leadership che non teme di esporsi per prime.
Troppo spesso la risposta all’incertezza è accelerare: processi più veloci, strumenti più performanti, risorse extra.
Ma tutto questo rischia di essere inutile se le persone non possono parlarsi davvero.
Perché quando qualcosa non funziona, la differenza tra un team che improvvisa e uno che cresce sta proprio lì: nella possibilità di dire le cose come stanno, di chiedere aiuto, di mettere insieme le prospettive senza paura.
Forse, più che rincorrere nuove soluzioni, dovremmo tornare a qualcosa di profondamente umano: creare spazi in cui le persone possano fidarsi le une delle altre.
E da lì, costruire il resto.

