C’è un tipo di burnout di cui si parla troppo poco: quello di chi sostiene la diversità ogni giorno, non a parole ma nei fatti.
Da anni incontro persone, nelle aziende, ma non solo, che si fanno carico di “spiegare” la diversità e di creare ambienti inclusivi.
Persone che correggono linguaggi, portano punti di vista diversi, lanciano idee, propongono cambiamenti.
Persone che parlano di temi scomodi come le molestie, le discriminazioni, le disparità salariali, di accessibilità e di opportunità.
Persone che vorrebbero essere ascoltate e supportate, ma che talvolta sono vittime di micro-aggressioni sottili, anche in contesti che si definiscono aperti e rispettosi.
Persone che, per ruolo organizzativo o per passione, si occupano di Diversity Equity&Inclusion.
Quando si parla di inclusione, il rischio è concentrarsi sui grandi principi astratti. Eppure basterebbe poco: si potrebbe cominciare dal riconoscere la fatica di chi si impegna a tenere aperto lo spazio del dialogo e si adopera affinché l’inclusione non sia un compitino affidato a pochi valorosi ambassador, ma una responsabilità collettiva.

